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Il Cambio di Mansioni

Il cambio di mansioni

Demansionamento, mobbing e danni

In materia del diritto del lavoro la disciplina del cambio di mansioni del lavoratore è storicamente una terra di contrasto.

Il diritto del lavoratore a svolgere le mansioni per cui è stato assunto viene contrabbilanciato dal diritto del datore di lavoro di organizzare la realtà aziendale secondo le esigenze che di volta in volta si manifestano.

La disciplina del cambio di mansioni (i.e. jus variandi) viene regolata dall’art. 2103 del codice civile.

La norma che fino al 2015 era un baluardo della difesa statica della professionalità del lavoratore è stata modificata con il D.lgs. 81/2015 – l’ormai famoso Jobs Act – arrivando a permettere, in alcuni casi ed a determinate condizioni, il mutamento delle mansioni del lavoratore.

L’attuale formulazione dell’art. 2103 c.c. può essere riassunta come segue:

  • È sempre permesso, senza necessità di accordo con il lavoratore, il mutamento orizzontale delle mansioni, inteso come mutamento di mansioni rientranti nello stesso livello e categoria.
  • In caso di mutamento degli assetti organizzativi dell’azienda è permesso il demansionamento del lavoratore, senza preventivo accordo, adibendolo a mansioni di un livello inferiore.
  • Nell’interesse del lavoratore, e quindi previo accordo in sede protetta, è possibile dequalificare il lavoratore adibendolo a qualsiasi posizione all’interno dell’organigramma aziendale
  • Infine, il lavoratore può sempre essere adibito a mansioni superiori, con aumento proporzionato della retribuzione. Dopo sei mesi l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore.

Vediamo più nel dettaglio cosa rientra nei poteri datoriali e quali sono gli obblighi che discendono da queste disposizioni.

Obbligo Formativo

Preliminarmente a tutto quanto di seguito, ogni volta che il datore di lavoro dispone, o concorda un mutamento delle mansioni del lavoratore, ha l’obbligo di fornire al proprio dipendente un’adeguata formazione. Certamente l’omessa formazione non comporta la nullità della nuova assegnazione, e purtuttavia il lavoratore ha dei modi per difendersi.

Il lavoratore non formato, infatti, può rifiutare la prestazione lavorativa ai sensi dell’art. 1460 c.c.

Infatti come confermato dalla giurisprudenza di merito l’omessa formazione del lavoratore è un inadempimento del datore di lavoro ed autorizza il lavoratore a rifiutare a propria volta di lavorare.

Parallelamente, il lavoratore che abbia causato un danno alla società a causa dell’omessa formazione non sarà responsabile dei danni causati.

Infine, il lavoratore, oltre a poter chiedere giudizialmente l’assolvimento dell’obbligo formativo potrà altresì richiedere il risarcimento di tutti i danni che l’omessa formazione ha comportato.

Con tale necessaria premessa è possibile analizzare tutte le modalità di esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro.

Mutamento orizzontale delle mansioni

Ai sensi del primo comma dell’art. 2103 c.c. il datore di lavoro ha diritto di assegnare il lavoratore a qualsiasi mansione che rientri nel medesimo livello e categoria delle mansioni per cui il lavoratore era stato inizialmente assunto.

In questo contesto, ovviamente, si deve fare riferimento al CCNL applicato o applicabile alla società poiché sarà questo a dettare i limiti del potere di mutamento orizzontale delle mansioni.

Rimane inteso che, in questo caso, la retribuzione rimane invariata.

Demansionamento Unilaterale

Nel caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, il datore di lavoro può decidere, senza alcun preventivo accordo con il lavoratore, di assegnare il dipendente a mansioni inferiori purchè rientranti nella medesima categoria legale.

Le categorie legali sono dettate dall’art. 2095 c.c. e distinguono i lavoratori in dirigenti, quadri, impiegati ed operai.
I CCNL identificano le diverse mansioni e livelli rientranti nelle singole categorie.

È possibile così che per un CCNL la categoria degli impiegati ricomprenda i livelli 4-5-6 mentre un diverso CCNL preveda che i livelli 4-5 rientrino nella categoria impiegati ed il livello 6 rientri nella categoria operari.

Vieppiù che negli ultimi anni è invalsa l’abitudine della contrattazione collettiva di procedere alla classificazione unitaria del personale, senza suddivisione dei lavoratori nelle categorie legali.

Ribadendo quindi che la norma riconosce la legittima adibizione a mansioni inferiori purchè rientranti nella medesima categoria legale, molti dubbi intepretativi sorgono quando si va a fare riferimento ai singoli CCNL. Sarà quindi necessario valutare caso per caso l’applicazione della norma.

Anche al fine di evitare abusi da parte del datore di lavoro, la facoltà di demansionare viene subordinata (a pena di nullità del demansionamento) alla conservazione per il lavoratore dei medesimi livelli retributivi. In questo modo il legislatore si assicura che le esigenze di ristrutturazione aziendale siano oggettive e non mascherino mere ragioni di opportunità economica.

Sul solco si inserisce la giurisprudenza che ha ricordato che “Costituisce dequalificazione il mutamento di mansioni in assenza di effettiva ristrutturazione aziendale” (Cass. Lav. 02/02/2023 n. 3131)

L’accordo di deaqualificazione

Con questo comma il legislatore ha raccolto gli indirizzi giurisprudenziali in materia.

L’incipit della norma è incontrovertibile. L’accordo di dequalificazione può essere disposto solo nell’interesse del lavoratore che viene declinato come:
Interesse del lavoratore ad un miglioramento delle condizioni di vita;
Interesse all’acquisizione di una diversa professionalità.

È il lavoratore, in questo caso, che richiede il demansionamento o comunque il cambio di mansioni. Le ragioni possono essere diverse e varie: la lavoratrice madre che richiede il part-time che però è disponibile solo per mansioni inferiori; oppure il lavoratore pendolare che per riavvicinarsi alla residenza richiede di essere ricollocato ad una sede più vicina a scapito delle proprie mansioni.

L’interesse del lavoratore si espande, quindi, sino a ricomprendere anche l’interesse alla conservazione del posto, che in questo caso si controbilancia con l’obbligo di repechage da parte del datore di lavoro.

L’obbligo di repechage, di cui abbiamo già parlato, è un obbligo inizialmente creato dalla giurisprudenza.

Pur riconoscendo al datore di lavoro la possibilità di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – ovvero in tutti quei casi in cui la posizione del lavoratore viene soppressa o esternalizzata – la giurisprudenza ha da sempre letto tale facoltà come estrema ratio, onerando il datore di lavoro deltentare di ricollocare il lavoratore all’interno dell’azienda, anche a scapito delle mansioni, prima di procedere al licenziamento.

Il nuovo articolo 2103 c.c. riprende così l’obbligo di repechage e lo cristallizza nel patto di dequalificazione.

Diversamente dalle altre modalità di esercizio dello jus variandi, date le enormi possibilità di deroga alla disciplina legale, il patto di dequalificazione deve avvenire in sede protetta ex art. 2113 c.c. (sindacato, DTL, commissioni di certificazione ) ed il lavoratore deve essere assistito da un avvocato o dal delegato sindacale.

A queste condizioni le parti possono concordemente decidere di dequalificare (anche di più livelli) diminuendo altresì la retribuzione in base al nuovo livello e anche modificare la sede di lavoro.

L’accordo di deaqualificazione

A fronte dei grandi poteri di demansionamento attribuiti al datore di lavoro con la nuova formulazione dell’art. 2103 c.c., la giurisprudenza ha da subito tentato di regolarne l’esercizio.

Ovviamente, come già anticipato, il demansionamento o la dequalificazione sono illegittimi se non vi è un nesso di causalità con le esigenze aziendali (Cass. 02/02/2023 n. 3131).

Incombe, quindi, sul datore di lavoro la prova della mancanza in concreto di demansionamento, ovvero la prova che il demansionamento fosse giustificato esercizio dei poteri imprenditoriali,  disciplinari o una causa di impossibilità della prestazione (Cass. Lav. 03/07/2018 n.17365)

In tema di obbligazioni contrattuali chi propone l’azione di risarcimento del danno/risoluzione/inadempimento, deve solo provare il titolo e dedurne l’inadempimento. Grava sul debitore l’onere di provare il corretto adempimento (Cass. SS.UU. 30/10/2001 n. 13533). In questo senso, il lavoratore dovrà solamente allegare il demansionamento illegittimo. Sarà onere del datore di lavoro dare prova di aver correttamente seguito la procedura di demansionamento.

Il risarcimento danni da ingiusto demasionamento

Il lavoratore ingiustamente demansionato avrà diritto a richiedere:

Danni patrimoniali: intesi come impoverimento della propria capacità professionale e perdita di capacità produttiva o perdita di chance;
Danni biologici: consistenti nel peggioramento della salute psicofisica del lavoratore a seguito dell’adibizione a mansioni inferiori;
Danno non patrimoniale: nel caso di violazione di diritti costituzionalmente garantiti del lavoratore.

Il lavoratore, così dovrà indicare la voce di danno, il pregiudizio subito, la gravità, il protrarsi nel tempo dell’illecito e la conoscibilità da parte del datore di lavoro (CDA Roma 21/02/2022 n. 517).

A fronte della richiesta il danno potrà essere liquidato in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. (ovvero secondo il libero apprezzamento del Giudice), usualmente in misura proporzionata alla retribuzione percepita.

Appare ovvio, inoltre, che il procedimento per impugnativa del demansionamento potrà essere altresì cornice ad un procedimento per mobbing.

Ai sensi dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro è tenuto a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. Qualora il demansionamento si inserisca all’interno di un quadro più amplio di svilimento sistematico della professionalità del lavoratore, l’imprenditore risponderà anche per mobbing.

Mansioni superiori

Può capitare anche che il lavoratore venga assegnato a mansioni superiori rispetto quelle per cui è stato assunto.

Questa assegnazione comporta l’obbligo di retribuzione proporzionata al nuovo livello riconosciuto e soprattutto (in ambito privato) il riconoscimento definitivo delle mansioni superiori decorsi sei mesi.

L’assegnazione non potrà divenire definitiva qualora l’adibizione a mansioni superiori sia stata disposta per ragioni sostitutive di un altro lavoratore in servizio.

Inoltre è necessario distinguere fra assegnazione a mansioni superiori e adibizione a mansioni promiscue ovvero riconducibili a più categorie/livelli professionali.

La differenze è facilmente riscontrabile nell’esempio del cameriere che viene messo a fare il cuoco (mansioni superiori), o viceversa, che pur continuando a fare il cameriere gli viene anche richiesto di aiutare in cucina (mansioni promiscue).

Nel caso di mansioni promiscue, l’inquadramento andrà determinato in base alle funzioni in concreto prevalenti, tenendo conto sia della qualità che della quantità di lavoro svolto (Cass. Lav. 08/02/2021 n. 2969).

Conclusioni

Dalla disamina fatta appare ovvio che la nuova formulazione dell’art. 2103 c.c. pur ampliando di molto i margini dell’esercizio del potere datoriale lo delimita e condiziona ad un rigido procedimento, la violazione del quale può portare all’obbligo di risarcimento del danno ed anche alla nullità della nuova assegnazione.

È opportuno, così, affidarsi ad un professionista per valutare la legittimità dell’operato e delle soluzioni promosse.

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